Villa Oldofredi Tadini

Il Castello col Fantasma Gentile

(articolo di Maurizio Crosetti, pubblicato su La Repubblica il 12 luglio 2009)

La chiave è di ferro, enorme e pesantissima, ma a che serve chiudere la porta? Lui, se vuole, verrà. Adesso che la finestra incornicia la notte, è il momento giusto per aguzzare l’udito.
Insieme al fresco e al buio entrano il canto di un uccello, uno scricchiolio di legno calpestato, niente più che un sospiro di vento. E a mezzanotte in punto, oh sì, l’eco lontana di una pendola: rintocchi secchi e lugubri, come di tosse soffocata.
Però, ragazzi, chi crede più ai fantasmi in quest’epoca digitale, virtuale, razionalmente gelida? Siamo qui per giocare, oppure per cercare davvero qualcosa di ultraterreno?
Nella «camera indiana» accanto alla torre medievale dove alloggiamo, sotto lo sguardo di un serio antenato baffuto, distesi su un letto morbido e mormorante — l’anima lignea, le molle antiche, le giunture secolari: nulla tace — ci mettiamo all’ascolto degli eventuali passi e sospiri e catene del conte Luigi Mocchia, luogotenente colonnello del Corpo dei guastatori, già maggiore di brigata nella Legione degli accampamenti, remoto proprietario di Villa Oldofredi Tadini di Madonna dell’Olmo, nato il 2 giugno 1750 e decapitato dai francesi il 5 luglio 1799. Per tre giorni la sua testa, messa in cima a un palo, venne portata in processione nelle strade di Cuneo come monito agli eventuali rivoltosi, resistenti e partigiani. Il conte amò la libertà e perse tutto: la vita, la testa, la casa saccheggiata.
«La leggenda del suo fantasma nacque subito, non è un’invenzione turistica», racconta la signora Gioia Tessitore Mattei, che ereditò Villa Oldofredi Tadini da sua nonna Gabriella e che oggi la abita insieme ai figli. «Ce lo raccontarono i nostri vecchi, e da piccoli ci piaceva cercare la testa del conte Mocchia, aspettarlo e spaventare gli amici».
Eppure, eppure non è solo uno scherzo. C’è un fitto elenco di medium, sensitivi, esploratori dell’occulto i quali garantiscono che in questi corridoi esistono «presenze», e loro non dormirebbero qui per nulla al mondo.
Invece eccoci: è già ora di spegnere la luce. Ma se poi dormiamo, sparisce l’incanto? Allunghiamo un po’ la notte, dài, siamo qui per questo. Per aspettare.
«Non si è mai saputo con certezza dove abbiano sepolto il corpo del conte», dice la signora Gioia. «Pare che la testa venne chiesta ai francesi dal parroco del Passatore, che la seppellì forse nel piccolo cimitero della chiesa. Invece il corpo del mio antenato fu pietosamente ricomposto dai contadini e sepolto da qualche parte, qui in giardino. Narrano che lui si aggiri ancora, di notte, nelle stanze della villa per cercare la sua testa perduta».
Alla «camera indiana» si sale attraverso due rampe di gradini in pietra, passando sotto l’affresco di una Venere con i pomelli rossi, una dea contadinella. C’è un corridoio lungo: su un lato le stanze, sull’altro la notte. Entriamo, dunque. Ci accolgono un bouquet di fiori rossi, i piccoli scatti meccanici di un antico orologio, una teoria di antenati in cornice, un armadio a muro e nell’armadio — ohibò — un pugnale. Ronza una mosca. Ma lui, il conte, dov’è?
«Venga, può vederlo in cappella, l’accompagno». In fondo al corridoio, ai piedi della scala a chiocciola si entra nella cappella di famiglia, un gioiello del barocco piemontese in rosa pastello. Su una parete, ecco il ritratto del beato Angelo Carletti da Chivasso, e nell’angolo del quadro una testa mozzata e una lama. «Venne aggiunta nel dipinto in un secondo tempo, si vede la mano diversa. La scoprimmo solo dopo un restauro». Il viso magro, scavato, più sofferente che pauroso. Ma almeno l’abbiamo visto: perché il fantasma, eventualmente, comparirà decapitato. «Ma non tema, sa, è uno spettro gentile».
Risaliamo in camera, accostiamo la porta, lasciamo perdere l’inutile serratura. Se è un fantasma timido e invisibile, ora ci starà forse guardando mentre noi guardiamo la notte. Oltre i cristalli, la sagoma del faggio rosso del Seicento: l’essere vivente più antico, qui. Ha radici che spingono fuori dalla terra, contorte, inquietanti e bellissime. Alla fine del pomeriggio, accanto al tronco becchettava un’upupa, l’uccello dei morti anche se poi non è mica vero: Montale la difese. Alle spalle del buio e delle nostre, è tutto un delicato concerto di rumori. Si sentono passi al piano di sotto, sarà la signora. Poi un tintinnio strano. Usciamo di nuovo in corridoio, come nei film (più Stanlio e Ollio che Harry Potter, comunque) e dopo qualche passo scopriamo che una corrente d’aria sta facendo tintinnare piccole campanelle di vetro. Le ombre dondolano. Gli armadi scricchiolano. I cardini cigolano. Gli affreschi sembrano vivi.
E finalmente, dopo tanta attesa, ecco il fantasma. Non è vero che è senza testa, ne ha molte invece: teste di bambini di tanti anni fa nelle fotografie appoggiate ovunque, piccoli visi incorniciati d’argento che non sono più, teste nei quadri di avi, trisnonni, antenati come Gabriele Tadino, nobile militare al servizio dei dogi, oppure il pensieroso Gerolamo Oldofredi, gentiluomo di corte della regina Margherita. Spettri del tempo perduto, ritratti di donne giovani e tristi, bimbe per sempre. Spiriti di chi nacque, visse e passò come un colpo di vento in questa notte di luglio, e abitò le trentasei stanze della villa, i salottini, i disimpegni, le cucine, aspettando l’acqua corrente che sarebbe arrivata solo nel 1967, mentre l’elettricità c’era dal 1937. Gente che visse, amò e morì come se niente fosse tra un’occupazione spagnola e un saccheggio francese, un passaggio di tedeschi e un’irruzione di partigiani, un balzo di scoiattolo e una pioggia di glicini. È arrivato finalmente il fantasma e si chiama tempo.
Anche con la luce spenta, nella stanza il chiarore non cede. E le ombre dei rami non smettono di giocare. Bello sarebbe non sentirsi soli, e sapere che davvero qualcosa esiste oltre la pesantezza dei nostri corpi, oltre le illusioni e i sogni.
Ecco l’ultimo rumore, però vivo e vero: dietro la porta chiede di essere ascoltato. La socchiudiamo. Vicino a due elefanti d’argento, sul davanzale c’è un gatto, rosso, morbido e panciuto, gli occhi che brillano nel buio come diamanti.
Perdoni, signor conte, ma si è fatto tardi. È veramente ora di dormire.

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